!doctype html>
Il futuro era il suo tempo, a cent’anni da adesso come soleva ripetere, intendendo che ogni messaggio artistico è una sorta di semina che si sviluppa negli occhi e nella mente dell’osservatore nel tempo, in quel futuro che si svolge rendendo visibile e dando corpo a ciò che è implicito nell’operazione artistica; è un tempo prospettico, quello di Agnetti, che l’Archivio ha fatto proprio.
Per questo, come archivio, non possiamo guardare solo alla deposizione storica del lavoro dell’artista ma dobbiamo esplorare e rendere tangibili e fruibili gli aspetti contemporaneamente cruciali e le proiezioni verso il futuro insite nel suo lavoro. Non è dunque un caso che per questo nuovo allestimento abbiamo optato per una mostra sul rapporto tra spazio, territorio e cultura, tema caro ad Agnetti e che in questi ultimi anni è diventato una questione centrale nel dibattito culturale e politico, una questione che riguarda la società ma riguarda anche la costruzione della nostra soggettività, attraverso i valori e le norme che ci interpellano fin nel profondo della nostra intimità.
Archivio 03 è quindi dedicato a questo tema centrale della ricerca artistica di Agnetti che informa una gran parte dei suoi lavori in bachelite: gli Assiomi, e in feltro: Ritratti e Paesaggi. Il volume si apre con un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel febbraio 1972, Non dipingo i miei quadri, in cui Agnetti spiega gli intenti della sua operazione artistica. Un’intervista illuminante che ci indirizza a considerare Assiomi, Ritratti e Paesaggi come capitoli di una grande narrazione a puntate che si snoda sui piani dell’analisi e della ridondanza letteraria esplorando i due versanti di ogni discorso, quello rigorosamente concettuale e quello sottostante, intuitivo e poetico. Tuttavia, le opere non sono capitoli di un libro. Le scritte hanno corporeità, rigore estetico e vengono viste con immediatezza nel loro insieme; ancora prima di essere recepite calamitano lo sguardo. La parola, di fatto, diviene immagine iconica e veicola il pensiero spingendolo verso un discorso che è detonatore di riflessioni, e lo è in quanto il valore iconico della scritta illumina il discorso, lo evidenzia ma non lo dipana, e dunque chiama l’osservatore ad entrare in una logica di riflessione. L’osservatore intercetta lo sguardo dell’artista dietro le parole incise ed è invitato a continuare il dialogo nella propria mente. Un dialogo che è oggi quanto mai contemporaneo.
Agnetti sceglie di assumersi in modo esplicito quel ruolo critico e di coscienza ribelle che ha enunciato a proposito del Libro Dimenticato a Memoria e che è sempre presente in tutti i suoi lavori. Per farlo si arroga il compito di sfidare le norme che ci assoggettano presentandosi come eventi e disposizioni naturali, e penetrando così, quasi in punta di piedi, nelle fibre più profonde della nostra coscienza. Lo fa attraverso contraddizioni, tautologie, immagini illuminanti e metafore che non sono giochi di parole o aforismi fine a se stessi, sono una denuncia dell’abuso di potere che il linguaggio imprime all’ordine simbolico proprio di ogni società. La contaminazione e l’ibridazione delle discipline presenti in queste opere rendono tutta l’operazione artistica qualcosa che giunge direttamente al cuore prima ancora che la mente possa comprendere. Per Agnetti artista prima avviene l’impatto visivo, poi l’elaborazione mentale che ha necessariamente tempi lunghi e si esaurisce solo quando il valore della concettualizzazione non è più proporzionale alla sua necessità storica.
Venendo ora alle opere scelte per l’esposizione, in primo piano troviamo Spazio perduto Spazio costruito, un multiplo del 1970, 9 tavole che rappresentano uno spezzone di discorso in qualche modo compiuto sul rapporto spazio, territorio, cultura e memoria; è un lavoro concettualmente importante che precede e dialoga con un altro lavoro molto importante, ma non presente in questa mostra, Otto proposizioni la serie di assiomi sullo stesso tema esposte per la prima volta alla galleria Francoise Lambert nel 1971 di cui, in relazione alla vocazione internazionale e alla tensione verso l’universalità che lo contraddistingue, esistono versioni in doppia lingua, in italiano e in Inglese. Attorno al multiplo si snodano assiomi e feltri che suggeriscono un discorso su cultura e territorio con frasi fulminanti e diagrammi che approfondiscono e ampliano le tesi presenti in Spazio perduto Spazio costruito. Al piano superiore il registro è poetico e intuitivo: i feltri ci restituiscono il senso dell’abitare e della città come luogo in cui le contraddizioni del rapporto tra soggettività, memoria, cultura e territorio esplodono lasciando inevasa una domanda di utopia. Infine a chiusura della mostra troviamo un lavoro che trasforma in evidenza implicita il rapporto tra spazio territorio memoria e cultura: Tre villaggi differenti. Tre vocali come tre tracce di villaggi e di lingue perse nella nostra memoria, e una casetta, il nostro villaggio, anch’esso dimenticato, forse. Quattro assiomi accompagnati dal suono del vento modulato dalla voce di Vincenzo Agnetti.
Germana Agnetti e Guido Barbato