QUANDO MI VIDI NON C'ERO
UNA BIOGRAFIA DI VINCENZO AGNETTI, di Germana Agnetti
Il percorso biografico e artistico di Vincenzo Agnetti è simbolicamente rappresentato dal suo autoritratto Quando mi vidi non c’ero.
Forse per questo è difficile ricostruirlo in maniera puntuale senza perdere qualcosa di prezioso e da qui la scelta di usare molto le parole dell’artista, anche se queste si dispongono a volte in modo puntiforme, come un riflesso nello specchio che subito sparisce.
Vincenzo Agnetti nasce a Milano il 14 Settembre del 1926, si diploma a Brera e poi segue la scuola del Piccolo Teatro. Lì, appena ventenne, conosce Bruna Soletti, la donna che rimarrà sua compagna e collaboratrice per tutta la vita, quasi un suo lato ombra.
Ancora giovanissimo inizia le prime esperienze artistiche nel campo della pittura informale e della poesia, di cui non è rimasta traccia se non nelle sue parole:
Quello che ho fatto, pensato e ascoltato l’ho dimenticato a memoria: è questo il primo documento autentico.
Le prime esperienze, apparentemente perdute, alimentano la profondità e lo spessore di un artista la cui produzione manifesta si è sviluppata in poco meno di quindici anni, dal 1967 al 1981. Sono spunti, riflessioni, gesti pittorici e poetici che non abbiamo più ma che costituiscono oscuramente e metodicamente il percorso di un’esperienza ricca e concentrata che potrebbe sembrare esplosa improvvisamente.
Sono ricordi che si stagliano nella mente delle persone che gli sono state più vicine, nella mente di una figlia, costituendosi come luogo di appartenenza. I suoi quadri, bellissimi, appesi alle pareti, le sue ceramiche sparse per la casa rammentano spezzoni di vita depositati nella memoria remota e trasformati in luoghi della mente. Il ricordo della sua voce che la sera, dalla stanza accanto, prima della buona notte, leggeva
Proust, rendendomi partecipe di un universo mentale che a me bambina rimaneva sconosciuto nel contenuto ma vibrante di significato nell’intonazione, è una parte della mia mente che è difficile, forse impossibile, da raccontare. Di tutto questo non è rimasta traccia visibile.
La cultura è l’apprendimento del dimenticare. Esattamente come quando si mangia.
Manipolato più o meno bene il cibo ci dà il suo sapore, ma presto dimentichiamo il sapore in favore dell’energia ingerita. In un certo senso dimentichiamo a memoria i sapori, le intossicazioni e i piaceri del mangiare per portare avanti con più libertà le nostre gambe, le nostre braccia, la nostra testa…
Il concetto del dimenticato a memoria rappresenta e unifica la prima fase dell’opera e della vita di Agnetti, che ci è stata sottratta alla vista e all’udito ma che possiamo apprezzare come sottesa al suo percorso artistico e di vita. Ad esempio sono dimenticate a memoria tutte le esperienze più importanti della sua vita affettiva e lavorativa che emergono come risultanti artistiche di un processo occulto.
Dalla fine degli anni ’50 agli inizi degli anni ’60 data la frequentazione di pochi amici tra cui Castellani e Manzoni, con cui condivide ideali, progetti, aspirazioni artistiche. Anche la sua vita familiare è permeata da questo fervore intellettuale che, tuttavia, sebbene già compiuto e articolato, rimane in attesa di manifestarsi.
Arrampicarsi su un albero
Aspettare
Aspettare
Aspettare
Aspettare
Aspettare
Aspettare che crescano foglie dalla propria pelle
Come in questo suo lavoro (Progetto Panteistico 2, La Foglia, 1972) Agnetti sta attendendo che si compia quel processo di trasformazione per cui il pensiero, le esperienze e la vita diventeranno operazione artistica.
Il Progetto Panteistico 2, in realtà è un lavoro di critica culturale ma, come spesso accade, vi è sempre e comunque una seconda lettura che si situa in una dimensione diversa, connessa all’interiorità più profonda, che dice qualcosa di noi, di come siamo. Per Agnetti l’arte è un’operazione di sintesi globale e l’artista, introducendo una distinzione tra il fare e l’essere, si realizza in una globalità in cui soggettività, coscienza e produzione sono un tutto inestricabile. .
Sono di quegli anni i suoi primi “scritti proposizionali”, quali la prefazione alle Tavole di accertamento di Piero Manzoni e Non commettere atti impuri, pubblicato sulla rivista Azimuth, in cui si trovano già in nuce elementi che svilupperà successivamente. In quegli anni si approfondisce l’amicizia con Manzoni con cui vi è uno scambio intellettuale intenso che nasce da affinità interiori e orizzonti mentali confluenti. E’ una collaborazione, anche epistolare quando la distanza lo impone, che continuerà fino alla morte di Manzoni.
Nel 1962 inizia il suo periodo sudamericano. Insieme alla famiglia parte per l’Argentina dove rimarrà fino al 1967, lavorando nel campo dell’automazione elettronica. I rapporti con gli amici e il mondo artistico milanese rimangono affidati alle lettere. I suoi oggetti, le sue produzioni “pre-artistiche“ spariscono. Quasi nulla ci è rimasto.
Quel periodo nel suo insieme io lo chiamavo liquidazionismo: nei casi migliori arte no.
Arte no era il rifiuto di dipingere, era la presenza a costo della crisi psicologica, era la presa di coscienza, erano i viaggi, il lavoro basso, sordo, per una libertà vera, era essere rivolto verso nuovi orizzonti.
E’ l’ultima pausa che precede immediatamente la trasformazione di Vincenzo Agnetti nell’Agnetti-artista.
Di quel periodo ricordo le cavalcate sulla spiaggia insieme a lui, la pesca lungo i fiumi, il mate assaporato nei momenti di riposo nelle estancias e poi i suoi quaderni, in primo piano. In quegli anni mio padre scriveva incessantemente in ogni momento libero. Questi quaderni, al contrario di altri lavori precedenti, ci sono rimasti. Egli stesso li ha intitolati Assenza :
Duemila pagine che raccolgono pensieri, idee e progetti trovati tra un incidente e l’altro in America del Sud, in Scandinavia, Arabia…
Gli oggetti sono dei rammentatori.
Eppure queste pagine non le rileggerò mai più. I testi sono talmente precipitosi e incalzanti che un lavoro di revisione e cancellazione mi porterebbe via altri sei anni.
Meglio rivedere semplicemente questi quaderni da un’angolazione più raccolta. Semplicemente dei quaderni: partitivo e partecipazione astratta.
Un riferimento solitario: un, eccoli e un, non-si-vedono-più.
Riflettendo su questo periodo Agnetti scrive che l’Assenza è una contraddizione essendo al tempo stesso un alibi e una presa di coscienza la cui produzione è paradossalmente un lavoro occultato.
Nel 1967, passando da New York, fa ritorno in Italia pronto per iniziare la sua nuova vita e il suo percorso artistico.
Dal 1967 il dimenticato a memoria, l’occultato, come abbiamo detto, diventa arte manifesta e di fatto la produzione artistica del nuovo corso della vita di Agnetti è spiegata e commentata con riferimenti precisi alla sua struttura e alla sua genesi, una specie di Archivio personale o, se si vuole, di rammentatore critico.
Di nuovo a Milano riprende e intensifica l’amicizia con Vanni Scheiwiller, nata nel 1958 quando aveva scritto il suo intervento per le Tavole di Accertamento di Piero Manzoni e destinata a durare per più di venti anni.
Nel 1968 inaugura con il romanzo Obsoleto la collana Denarratori di Scheiwiller. La copertina è di Enrico Castellani, una sorta di sigillo del sodalizio intellettuale e progettuale che era stato alla base di Azimuth. Obsoleto affonda le radici negli anni che vanno dal 1963 al 1967 e vuole essere il recupero di ciò che è caduto in disuso ed è annullato: in tal senso assume il significato di cerniera tra le due grandi fasi della sua vita. Inoltre l’articolarsi circolare della narrazione, le frequenti soluzioni puramente grafiche, le ultime pagine illeggibili per la limatura della composizione in piombo effettuata dallo stesso artista, segnano l’inizio di un lavoro di riflessione sul linguaggio che travalica il discorso critico ed epistemologico per entrare nel dominio dell’arte in un’accezione rigorosamente concettuale. Come non si può da questo momento in poi separare la vita di Agnetti dalla sua produzione artistica così è artificioso distinguere tra un Agnetti scrittore, un Agnetti pittore, un Agnetti scultore, un Agnetti critico. Siamo ora di fronte all’“uomo artista” di cui Agnetti ha scritto nel 1967 ( Intorno alla, nel libro su Piero Manzoni edito da Scheiwiller) , dove le diverse dimensioni, della critica e della creatività artistica, si fondono creando una straordinaria singolarità .
Nel frattempo Agnetti riparte, prima per la Norvegia e poi per il Qatar; ormai le assenze sono più brevi ed egli è comunque entrato nel dominio della visibilità artistica, come testimoniano la sua ininterrotta produzione e le lettere all’amico Scheiwiller, pubblicate dallo stesso nel 1981, come omaggio postumo.
In questo periodo la collaborazione artistica e letteraria con Scheiwiller è intensa. E’ del 1970 infatti Ciclostile 1, un elenco di progetti e idee firmato Agnetti che l’editore pubblica quasi clandestinamente e sono dei primi anni ’70 i suoi scritti sempre edizione Scheiwiller, per artisti quali Fausto Melotti, Antonio Calderara, Raimond Girke, Reimer Jochims, Karl Pranti, Mauro Reggiani pubblicati, sempre per Scheiwiller su Ricerca contemporanea 1,2,3.
Nel 1967 tiene la sua prima mostra al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, dove espone una logica permutabile intitolata Principia.
Quest’opera si situa all’interno del discorso sul linguaggio sviluppato nell’Obsoleto e concretizza visivamente la problematica della relatività dei significati nel linguaggio.
Si tratta di un grande pannello di legno dipinto di bianco sul quale sono scritte alcune parole; al pannello è applicato un cursore, scorrevole orizzontalmente, sul quale si ripetono alcune parole già scritte sulla tavola, spostando il cursore si modifica il rapporto tra parola e parola realizzando così il concetto espresso nella Tesi, autoedizione del 1968, Una parola vale l’altra ma tutte tendono all’ambiguità.
Le opere di Agnetti vanno lette all’interno di un doppio registro: l’opera che parla per sè, con la forza della sua essenza visiva con la sua sottostante interiorità e il lavoro critico-epistemologico, puntuale, metodico, che le sta alla base.
Così nel 1968, per una coincidenza significativa l’anno della contestazione studentesca, espone alla Galleria Visualità, con una scenografia molto suggestiva, la sua Macchina drogata. Si trattava di una calcolatrice Divisumma 14 Olivetti i cui centodieci numeri erano stati sostituiti con altrettante lettere dell’alfabeto in modo che tutte le parole ottenute dalle operazioni, anche se prive di significato, fossero comunque supporto di intonazione.
Il visitatore della mostra veniva condotto attraverso uno spazio stretto dominato da tre grandi pannelli sui quali era pantografato il testo della Macchina drogata al cubicolo, chiuso da una tenda nera, dove si trovava la stessa, in piena funzione e pronta per essere usata da chi entrava.
L’allestimento creava nel visitatore una sorta di suspence ironica che ben si adattava al ribaltamento del ruolo, da spettatore ad attore, e alla logica paradossale di tutta l’operazione.
Al proposito, Agnetti annota nel suo rammentatore critico: è un’operazione di critica al linguaggio. Il codice numerico viene tradito in quanto codice ma non distrutto perchè esso si trasforma in un’altra lingua, quella della parola.
La dinamica propria della aritmetica dei numeri viene privata del suo significato abituale quando viene trasferita alle lettere.
In questa opera si rivela anche una forma di scetticismo nei confronti della possibilità dell’arte di negare se stessa. Infatti la Macchina drogata opera il suo tradimento e diventa a sua volta creatrice; la macchina inibita nelle sue funzioni tecniche viene usata per creare delle nuove opere.
Un altro elemento che compare in questa opera è l’avvenimento. La macchina esposta in una mostra produce da sè la propria mostra con l’intervento del pubblico: i suoi risultati vengono estratti e appesi al muro come quadri, o meglio come documenti di un’azione artistica.
Elementi di critica al linguaggio, critica politica, rappresentazione teatrale si intrecciano, sono aspetti inscindibili dall’opera che rimane comunque un oggetto estetico in sé e una prima operazione di Teatro Statico.
Inoltre Agnetti spinge fino alle estreme conseguenze il discorso politico inerente la Macchina drogata e la sfrutta, la fa lavorare producendo opere d’arte bellissime che acquisiscono un impatto estetico e un’identità autonoma. Aritmetica, Semiosi, Comete, Entropia I e II, l’Apocalisse; e ancora Corfine, Libro quasi dimenticato a memoria, ecc.
La macchina drogata, sebbene con ritmi differenti, continuerà a lavorare e difatti troviamo scritto, sempre sul rammentatore critico:
Il secondo documento autentico impresso, invece è il lavoro che “continua”. Questo lavoro che “continua” è sicuramente un filo conduttore nel percorso di Agnetti, lo rintracciamo sia nella vita che nell’arte.
Così è per i rapporti affettivi, molte donne ma un amore costante, molteplici conoscenze, ma pochi amici fedeli.
Così è per i luoghi, dove gli spostamenti geografici, dall’Europa, alle Americhe, al Medio Oriente, espressione di un’ansia di cambiamento e di divenire costante, fanno da contraltare alle origini milanesi profondamente radicate in un rapporto continuo con la città natale.
Così per la produzione artistica, dove un unico lavoro durato quanto la sua vita attorno ad alcuni temi fondamentali sottende, la brevità del suo manifestarsi e la varietà delle tecniche, dei materiali, delle forme estetiche e dei mezzi.
Immagini e parole fanno parte di un unico pensiero. A volte la pausa, la punteggiatura, è realizzata dalle immagini, a volte, invece è la scrittura stessa
Continua si intitola anche un insieme di opere che testimoniano in modo chiaro e inequivocabile la sua intenzione di introdurre il discorso critico nel cuore del circuito artistico. Si tratta di opere ottenute fotografando su tela emulsionata le pagine della rivista Domus che ospitava Copia dal vero numero primo, un lavoro pensato nel 1969 e volto a descrivere l’evoluzione-involuzione del percorso artistico.
Coniugando saperi che gli provenivano dal suo lavoro in Sudamerica, realizza una scultura il Neg in grado di vitalizzare il negativo.
1970. Ho finalmente terminato (realizzata nei laboratori della Brionvega) l’opera che provvisoriamente chiamo Neg (da negativo).
Si tratta di un giradischi stereofonico che ci permette di ascoltare il silenzio , o meglio, le pause della musica. Quando dal detector ( tramite disco o nastro magnetico) giunge il segnale del suono, un circuito inibitore blocca il segnale dell’ampificatore e abbiamo il silenzio.
Quindi vengono prese in considerazione le pause della musica (cioè il microintervallo tra suono e suono).
Si possono cancellare le risonanze accentuando più o meno l’importanza degli intervalli e al posto del silenzio il circuito inibitore manda all’amplificatore un suono bianco, regolabile, prelevato da un generatore di bassa frequenza. Insomma col Neg possiamo ascoltare il negativo della musica. Per esempio, se uno fa un discorso non si sente, se però l’oratore tace si ode il suono bianco.
E accanto all’invenzione-scultura il Brevetto diviene opera d’arte, segnalando come l’idea venga fagocitata e utilizzata dal sistema.
A distanza di dieci anni, nel 1981, a New York, riprenderà il discorso iniziato con il neg partecipando a Revolution per minute (the art record), un album musicale prodotto da Jeff Gordon e composto da 22 artisti, legati alla Galleria Feldman, tutti esponenti dell’arte visiva e concettuale. Agnetti compone una musica in cui il suono è rappresentato dalle pause. Lo spartito, rappresentato da un diagramma, diventerà successivamente un’opera: L’udienza è tolta, sia su carta millimetrata e sia su feltro.
Dalla fine degli anni ’60 la riflessione sul linguaggio continua su più fronti.
Nel febbraio 1971 alla Galleria Blu di Milano espone una serie di feltri e di bacheliti che inaugurano un filone di lavoro che diventerà estremamente prolifico .
Dopo il lungo operare è inevitabile l’utile inutilità del gesto e del facile per rompere un momento le righe: ma sempre incombe la verifica, e presto; la pausa, l’idea, il gusto, diventano il supporto provvisorio di un nuovo discorso.
Il titolo della mostra è suggestivo:
"Ridondanza: paesaggi e ritratti
Analisi: assiomi…"
I Feltri sono pannelli incisi a fuoco o dipinti con colore che raffigurano ritratti e paesaggi attraverso l’uso della ridondanza letteraria mentre gli Assiomi sono lastre di bachelite incise e trattate con colori ad acqua o nitro in cui diagrammi e frasi esprimono qualche volta proposizioni assiomatiche, più spesso tautologie, contraddizioni, paradossi contrapponendosi ai Feltri per freddezza mentale e rigore concettuale. Fa eccezione Profezia (1970) che è un assioma ipotetico, l’unico nel suo genere, in cui il materiale utilizzato e l’uso del colore ne ammorbidiscono l’impatto estetico.
Gli Assiomi rimangono la controprova di quanto enunciato in altre mie opere precedenti impostate sulla relatività del linguaggio scritto…Gli Assiomi in sostanza rappresentano una esasperata serietà anche se a volte la finzione viene meno a causa dell’elaborazione mentale.
In questo senso essi costituiscono una sorta di eco del lavoro concettuale di Agnetti e per questo costituiscono la punteggiatura mentale lungo il suo lavoro.
Nel 1972 alla Galleria Martano 2 sono in mostra i Telegrammi, un altro aspetto della sua riflessione sul linguaggio:
14 proposizioni sul linguaggio portatile, sulla parola trasmessa, ricevuta e resa tramite per una esemplificazione dell’antitempo, insieme di antiattimi; tempo che non scorre. 14 telegrammi che ho spedito a me stesso per deviare il concetto di tempo come stato a sé. Il tempo infatti non è altro che il lavoro di formazione e consumazione delle cose. In ogni cosa c’è un correre trascorrere che chiamiamo tempo
Pertanto questo lavoro è un discorso senza poetiche temporali, è un tempo no dove partenza e arrivo sono la stessa cosa.
Con Off limits nel 1969, con XIV-XX secolo nel 1970 e con 1870-1974 nel 1974, Agnetti interviene su quadri e affreschi antichi, di proprietà di alcuni suoi collezionisti, realizzando opere che nel loro insieme racchiudono il lavoro di due artisti in un certo arco temporale e mettono a confronto con lucida e scarnificata sintesi, linguaggi elaborati a distanza di secoli. E ancora nel 1978 utilizzerà alcune antiche fotografie giapponesi trasformandole in lavori in cui ironia e poesia saranno le determinanti dell’operazione.
Il discorso sul tempo è centrale nella sua opera ed è protagonista esplicito di molti suoi lavori. Ad esempio le Meridiane, o Tempus mentis, in cui il tempo concreto rappresentato dalla meridiana che misura il percorso del sole nelle varie ore del giorno viene messo a confronto con il tempo astratto delle formulazioni filosofiche.
Una meridiana assurda in cui i numeri sono sostituiti da proposizioni sul tempo è la risultante di un gioco ironico e paradossale in cui continua quello scambio tra parole e numeri iniziato con la macchina drogata.
Come già in Tempus mentis, anche in Tempo azione, una serie di sette disegni esposti nel 1973 alla Galleria Anna Maria Verna di Zurigo il tempo viene visualizzato spazialmente ma, questa volta, è messo in relazione con l’azione artistica.
Ho cominciato col pensare ad alcune opere d’arte, in particolare, ma più in generale a tutta la pittura cosidetta “classica”: quella che ha sempre pensato a raccontare storie (storie di eroi, di santi o altro).
Ovviamente, tutte queste storie sono sempre incomplete, lo notiamo anche nei film: mancano di fotogrammi, mancano di tempo, mancano di spazio. Nella misura in cui svolgevo queste riflessioni, mi sono detto: ci deve essere la possibilità di raccontare una storia completa. Ebbene, l’unica possibilità di raccontare una storia completa era quella di far sì che la storia fosse brevissima, costituita da istanti. Questo -una storia brevissima- era il tema; poi c’era il problema della realizzazione, che alla fine non era altro che la risultante finale, inaspettata: allora ho preso un foglio di carta e ho tracciato due segni, due istanti, e con questo per me la storia era completa e non mancava di alcun particolare. Questo ha dato l’avvio a un discorso.
Continuando a speculare su questo fatto, poi, i due punti sono diventati quattro o più.
Mi sono detto: “benissimo, la storia è fatta; ora vorrei invertirla, vorrei far sì che sparisse”. Allora ho ripreso l’ultima figura (quella “Dati due o più istanti lavoro vi sarà sempre una durata-lavoro contenente gli istanti dati”) che era una figura completa, ne ho lasciate alcune tracce e ho scritto sotto: “Opera quasi dimenticata a memoria”, poi ho messo un foglio bianco sopra e ho scritto “Opera dimenticata a memoria”.
Sempre all’interno della riflessione sul tempo ritroviamo i Progetti panteistici, i Telegrammi, l’Autotelefonata, successivamente l’Età media di A., e ancora Dei Mutamenti ecc.
Nel ’72 alla Galleria Françoise Lambert di Milano espone Spazio perduto e spazio costruito in cui elabora con lucidità mentale che diviene operazione estetica vibrante il rapporto tra lo spazio e il trascorrere del tempo.
Nel ’73 finisce di realizzare quel Progetto di un Amleto Politico su cui stava lavorando sin dalla sua permanenza in Arabia.
"Progetto per un Amleto politico. E’ il titolo di un mio lavoro che ho progettato anni fa . Nel suo insieme si inserisce in quel tipo di operazione che ho già avuto occasione di chiamare “teatro statico”. Teatro statico inteso come spettacolo senza movimento senza personaggi e senza testo.
……….Oscar Wilde diceva che non si può evitare il futuro; il futuro del teatro è la sua scomparsa a favore dello spettatore. In tal caso allo spettatore per assistere a uno spettacolo basteranno le cose più semplici, sprovviste di notizie artificiose ma con molta possibilità di informazione. Basterà per esempio, osservare un oggetto, scendere alle radici del perchè è stato costruito quell’oggetto. Le motivazioni dell’opera ( oggetto o non oggetto ), l’ubicazione e la violenza per l’osservatore, perchè cerchi qualcosa, saranno il testo: Il teatro si verificherà nella mente dell’osservatore.
Questo mio Progetto per un Amleto politico è cominciato così:
a) Amleto non è uomo del dubbio
b) Amleto non è uomo del calcolo
c) Amleto ricorda soltanto il monologo
d) Amleto dimentica il teatro e il personaggio
e) Amleto non è più l’Amleto inventato ma uno qualsiasi che arringa la folla con il monologo
f) Il monologo diventa un comizio senza significati
g) L’affermazione sostituisce l’introspezione mentre i numeri sostituiscono le
parole e diventano semplici supporti di informazione."
Come già per la Macchina drogata la scenografia della mostra (Galleria Forma di Genova e Galleria Castelli di Bergamo) era assolutamente straordinaria ed era parte integrante dell’operazione. Il Progetto per l’Amleto politico veniva presentato così: la scultura, un palco essenziale, visivamente catturante ma vuoto; tutto attorno le opere, bandiere di tutte le nazioni del mondo unite a testi formati da soli numeri che visivamente sottointendono diversità di intonazione, completate con la didascalia che indica i sette punti del progetto.
La mostra era uditivamente avvolta dal suono della voce di Agnetti che proveniva da un registratore e il comizio recitato con soli numeri rendeva l’atmosfera assurda, quasi una presentificazione del futuro.
Nei primi anni ’70 Agnetti era rivolto a delineare precisamente, con grande lucidità mentale e con un notevole sforzo concettuale le coordinate alla base della sua operazione artistica che, alla fine del decennio, anch’esse quasi dimenticate a memoria, sarebbero state rivisitate con un rinnovato anelito poetico.
Di quegli anni sono le interminabili discussioni con gli amici che faceva entusiasticamente partecipi dei suoi progetti: i collezionisti più cari tra cui Malabarba, Bertolini e Rimoldi, il suo gallerista e sostenitore Castelli, e poi Franco Toselli, Daniela Palazzoli, Pierre Restany, Gregory Battcock, Achille Bonito Oliva, Carla Pellegrini e artisti a lui vicini quali Fausto Melotti, Mario e Marisa Merz, Alighiero Boetti. E naturalmente Bruna Soletti.
Sempre di quegli anni, sono la collaborazione con Domus volta a introdurre nel circuito artistico il discorso critico, appoggiata dall’ amicizia con cui fu legato a Lisa Ponti; e le inserzioni anonime sulla rivista Data, anche qui un’altro legame importante, con Tommaso Trini.
Il lavoro artistico, insomma, era il veicolo di relazioni cariche di significato che ruotavano attorno alla sua attività creativa, come ad esempio con Salvatore Licitra che, ancora ragazzo, iniziò a frequentare il suo studio divenendo ben presto suo collaboratore per la fotografia.
Tuttavia, anche le relazioni con gli artisti emergenti di quegli anni, a cui era accomunato dallo stesso anelito innovativo, che segnarono molti momenti della sua vita, non diedero mai luogo alla formazione di un gruppo. Qualche collaborazione, come quella con Gianni Colombo con cui produsse Vobulazione e bioeloquenza, oppure con Paolo Scheggi con cui ideò e costruì Il Trono, o ancora con Claudio Parmigiani per Lo Scriba, ma collaborazioni del momento. L’operazione artistica di Agnetti ebbe sempre una vocazione solitaria, al di fuori delle correnti e delle consuetudini.
TRADOTTO AZZERATO PRESENTATO erano le parole chiave dell’Amleto politico. Il tema della traduzione esasperando il motto una parola vale l’altra ma tutte tendono all’ambiguità diventa un altro filone conduttore importante. A questo proposito Agnetti scrive:
"Se uno di noi usa un linguaggio una disciplina qualsiasi per fare arte presto si troverà costretto ad azzerare, cioè riportare al punto di partenza, la disciplina stessa. Sarà quello il momento di strumentalizzare la disciplina usata fino a cancellarne la struttura. Allora i concetti si ridurranno a pure e semplici segnalazioni: nel loro insieme formeranno una composizione, in un certo senso l’equivalente dei segni e dei colori nei quadri ad olio."
In questo Amleto politico, per esempio, l’azzeramento avviene privando le parole del loro significato sostituendole con dei numeri.
Nella misura in cui la figura parola scompare il numero che la sostituisce diventa un semplice supporto di intonazione.
La parte visiva recupera l’impatto opera-spettatore ma nello stesso tempo declassa l’illusionismo. La parola non è più oggettualizzabile come avviene in certe operazioni che ripropongono la parola come medium fine a se stesso; per contro viene meno anche il didatticismo di ispirazione scolastica.
Ecco allora che il monologo di Amleto (comizio) trasformato in numeri ci riappare nella sua origine: spogliato delle ambiguità del linguaggio ci offre un’opera tradotta in tutte le lingue.
Compaiono Cinque oratori, Frammento di tavole di Dario tradotte in tutte le lingue, Architettura tradotta per tutti i popoli, I King, e altre opere ancora. L’attività è frenetica, quasi presentisse la brevità della sua stagione artistica.
Nel ’75 Agnetti è di nuovo in viaggio; Milano sembra andargli stretta, volge lo sguardo oltr’Alpe ma la sua meta questa volta è New York: apre uno studio a Manhattan, inizia la collaborazione con Ronald Feldman, stringe amicizie con altri artisti, in particolare con Arakawa.
Quello stesso anno aveva esposto alla Galleria Sonnabend di Parigi Gli eventi precipitano (1974), un lavoro di tre sequenze di sei pezzi ognuna che si propone come un prototipo di “equivalenza”. Agnetti aveva già lavorato attorno al concetto di equivalenza, ad esempio proponendo un parallelismo tra l’ambiguità del linguaggio letterario e quello matematico, ma con Gli eventi precipitano affronta un discorso più complessivo sull’arte, l’artista e il tempo che li inscrive in un determinato percorso.
Considerando che un problema filosofico o fisico, ha la possibilità di essere volgarizzato, cioè reso pubblico, in immagini differenti che riflettono lo stesso discorso, ho pensato di tradurre su sei lavagne il percorso di un vettore, rappresentandolo in diagrammi e superfici. Poi ho recuperato questo discorso a livello di immagini familiari, immagini di oggetti e immagini di persone, dando luogo e tempo a una “storia didattica”; storia di oggetti e storia di persone. La proposizione Gli eventi precipitano indica appunto l’importanza del tempo sul percorso delle cose e delle persone.
L’enunciato, rappresentato con il Vettore, si snoda a livello di lavagne-assiomi, sottolineando con l’esasperata serietà e lucidità del materiale e del mezzo grafico
l’aspetto mentale, cognitivo dell’operazione. Invece gli altri termini dell’equivalenza, l’oggetto e la persona, che riguardano l’arte e l’artista e si avvalgono del mezzo fotografico, rappresentano rispettivamente i quaderni scritti in Sud America e sè stesso invitando attraverso le immagini ad entrare in una dimensione biografico-poetica.
Una mostra, questa di Parigi, che assume in sè, in modo organico, estetiche e istanze differenti, interne comunque al suo percorso artistico, che si compenetrano attraverso uno stesso discorso, realizzando una sintesi del lavoro fatto.
Il 1975 è di fatto un anno ponte, in cui emerge in lui prepotentemente la necessità di fare il punto, di riassumere lo stato della sua arte.
Per questo nella sua prima mostra americana alla Galleria Feldman di New York, Agnetti si presenta con Immagine di una mostra, un’esposizione già realizzata a Milano alla galleria Castelli l’anno precedente, 1974, e anch’essa tesa a fare il punto sulla sua ricerca artistica .
Prima di tracciare l’immagine di una mostra occorre tenere presente i perchè delle immagini che verranno esposte.
Agnetti sceglie per l’esposizione lavori differenti ma accomunati da un medesimo filo conduttore e riassunti nella scritta TRADOTTO RIDOTTO DIMENTICATO.
Tuttavia le opere ( 1870-1974, Architettura tradotta per tutti i popoli, L’età media di A, Frammento di tavola di Dario tradotta in tutte le lingue, In allegato vi trasmetto un audio tape della durata di 30 minuti) riflettono anche altri perché, connessi alla multidimensionalità e alle differenti profondità del suo lavoro.
A d esempio il ritratto di Angela Gallmann L’Età media di A. è sia paradigmatico della multidimensionalità del lavoro di Agnetti, sia testimone esplicito della sua capacità di innovare e di precorrere i tempi. Abbiamo infatti un’opera che, costruita sulla base dell’ interpretazione critica della storia dell’arte (passato), riesce a gettare lo sguardo nel futuro concettualizzando e costruendo un ritratto che solo ora la tecnologia e la fotografia digitale ha reso possibile e immediato.
L’idea di realizzare questo ritratto mi è venuta osservando i grandi ritrattisti del passato. Ciò che mi interessa in quei pittori-dai Senesi al Caravaggio-nell’autoritratto (1623) del Rubens, nel Ritratto di ignota del Pollaiolo, tanto per citare degli esempi, non è certamente la realizzazione del dipinto in se stesso, tendente alla verosimiglianza col soggetto da ritrarre. Ma la ricerca che durante l’esecuzione del quadro portava quegli artisti a riscoprire nel soggetto, luci e tensioni ormai passate. Insomma un volto dipinto da Rembrandt, per esempio, non è soltanto un volto. Esso è per prima cosa un involucro un raccoglitore che rivela magicamente il tempo giusto, vissuto, goduto, sbagliato, dimenticato, di una data persona.
Il volto è lì, te lo vedi di fronte, con tutto il suo senso di essere stato, di essersi dato, capito, lasciato. Solo così è possibile riordinare in un volto i lati salienti costruiti da un tempo ancora meritevole di ascoltazione. Gli occhi rifoettono una luce perduta che identifica un momento determinante del soggetto ritratto: così, il naso e la bocca di oggi; così gli occhi oppure la fronte la guancia etc.
Ecco perché la pittura con i suoi ritratti ci ha conservato dei personaggi completi e nn delle semplici fotografie. Ecco perché in questo lavoro, per questa “età media di A.” ho scelto più immagini. Immagini studiate, tagliate, unite. Accorciando l’età di A non ho fatto altro che ridare ad A la sua giusta linea di tempo: la sua giusta collocazione visiva nel tempo.
E’ evidente qui un discorso sul tempo e sul rapporto tra tempo e ritratto, parafrasando uno degli Assiomi più conosciuti di Agnetti potremmo dire che il volto è la deposizione del tempo. Il ritratto, in questo caso, diventa ricerca di un tempo medio dell’esistenza già depositata, mentre ad esempio nell’Identikit diventava ricerca di un futuro possibile. Ma, a fianco, abbiamo anche un discorso di critica dell’arte e abbiamo la trasformazione del discorso critico in opera d’arte.
Immagine di una mostra è un biglietto da visita straordianario che gli apre immediatamente le porte del mondo artistico della Grande Mela e consolida il sodalizio con Ronald Feldman. A NewYork, fucina dell’arte concettuale, la sua singolarità è evidente, il suo lavoro è un’operazione concettuale che affonda le radici in un universo poetico e filosofico che viene dall’Europa. Da allora Agnetti avrà due studi e due anime, New York e Milano, una sorta di pendolarismo, anche mentale, sospeso tra due mondi, tra due temporalità complementari ma distinte.
La sua produzione artistica continua lungo le linee di riflessione già tracciate: il linguaggio, il tempo, la comunicazione, la critica politico-sociale: abbiamo impianti di teatro statico, di notevole impatto emotivo e visivo come l’ Elisabetta d’Inghilterra (1976) e opere di grande rigore concettuale, quali Mass Media (1977).
Pur continuando rigorosamente la ricerca artistica in ambito concettuale, verso la fine degli anni ’70 l’anima poetica di Agnetti prende il sopravvento, scompaiono o quanto meno sono più rare le didascalie esplicative sul registro logico-cognitivo e il rigore mentale si stempera in poesia.
Basti pensare a Il Delitto (1977), in cui lo scritto che accompagna le foto traduce l’operazione concettuale in poesia. Oppure alle grandi opere Riserva di caccia (1978) in cui il discorso di critica sociale che sottende il lavoro è sinteticamente accennato nella frase in calce IL DESIDERIO COLPISCE PRIMA DEL PROIETTILE E SI ABBATTE COME FULMINE SUL CUORE LIMITATO DELLE COSE.
Nel 1977 di nuovo una mostra che riassume. Agnetti sente impellente la necessità di fare il punto, di connettere opere diverse attorno ai diversi fili conduttori che le attraversano. All’Israel Museum di Gerusalemme Mental Installation è il titolo che collega tra loro opere prodotte tra il 1974 e il1977: Sei villaggi differenti, Elisabetta d’Inghilterra, Mass Media, Il Delitto.
Nel 1978 pubblica con Guanda un libro di poesie intercalate a immagini di sue opere. Il titolo, Machiavelli 30, si riferisce al suo studio di Milano, al luogo connesso alla sua vita artistica, quasi un insight nell’intimo dell’artista.
Così scrive sulla retrocopertina del suo Machiavelli 30:
"Esiste un unico punto di incontro; un unico ponte di Rembrandt; un unico stato di aura, dove arte e poesia sono la stessa cosa. Questo accade quando la punteggiatura e gli a-capo della poesia identificano delle immagini; oppure quando la didascalia
di un’opera d’arte ti pone le immagini come interpunzione."
Data l’equivalenza sopra citata è possibile individuare i punti di incontro del Machiavelli 30: la scrittura che sublima la punteggiatura scoprendo le immagini, e, per contro le immagini che diventano pause.
Altre spiegazioni non servono perchè il percorso di questa opera può essere capito soltanto da coloro che lo hanno già osservato nella mia stessa forma e sottrazione.
La poesia non si può illustrare come l’arte non si può descrivere. Una figura non è solamente una figura, come una parola non è solamente una parola: in questo lavoro, figura e parola insieme sono un’unica cosa.
L’inscindibilità tra arte e poesia si manifesta chiaramente nelle mostre e nelle opere di questo periodo, basti pensare alla esposizione al Museo di Portofino (1977 ), dove le installazioni creano un’atmosfera poetica attorno all’operazione concettuale.
Prima il dubbio, poi la poesia, la sintesi e quindi la lotta con il circondario mondano
Basti pensare alla stanza Della provvisorietà: un vecchio tavolino con sopra una palla di cannone in bilico, una sorta di teatro statico che evidenzia il tema dell’equilibrio instabile quale aspetto fondamentale della nostra esperienza umana.
Dati un tavolino e una pietra nello stato di provvisorietà, fra caduta e cadere, abbiamo una camera incantata e una camera oscura che riprende il luogo, il dubbio il calcolo e il saluto.
Il 1980 si apre all’insegna della scultura con una mostra intitolata Surplace, esposta da Toselli a Milano e da Feldman a New York. L’opera è costituita da quattro grandi sculture in ferro e quattro fotografie che rappresentano in un unico lavoro quattro momenti di una performance, La lettera perduta, realizzata a Palazzo Grassi di Venezia nell’estate 1979. Le quattro fotografie, raffiguranti i quattro momenti cruciali della performance, costituiscono i titoli delle sculture, da cui il nome Quattro titoli. E’ una mostra intensa che allude a un altro letterario ma che al tempo stesso si presenta con una forte dimensione estetica di matrice concettuale, coniugando in modo esplicito i due mondi di Agnetti: quello mentale, lucido, sul filo del paradosso e quello poetico che attinge al mondo interiore.
Nelle photo-graffie, che sono tra le sue ultime opere ( 1979-81 ), Agnetti va oltre: la poesia invade anche lo stile. Si tratta di carta fotografica esposta alla luce e trattata, su cui interviene con graffi in modo da recuperare l’elemento “figurativo”, il disegno, all’interno di un’operazione concettuale.
Tale operazione rimanda ai lavori del 1974 Fotografia eseguita a mano libera e Fotografia eseguita ad occhio nudo, in cui Agnetti utilizza la tecnica del procedimento interrotto per riflettere sul rapporto tra mezzo e messaggio, tra strumento, tecnica compositiva e prospettiva, tuttavia qui l’intento differente.
Con le photo-graffie, infatti, utilizzando un procedimento alterato, Agnetti intende proporre un’immagine ironica e poetica che anticipa e sostituisce la realtà esterna.
Così nella mostra al Padiglione d’Arte Contemporanea, tra la fine del 1980 e gli inizi del 1981, Agnetti espone le sue quattro grandi “vetrate” intitolate Le quattro stagioni, in cui il vetro trasparente è “alterato”, sostituito dalla carta fotografica resa opaca dell’esposizione alla luce, e gli scenari esterni sono disegni graffiati che rappresentano le stagioni.
Una poesia accompagna quest’opera straordinaria: I dicitori. Ascoltandola dalla sua voce ancora viva e avvolgente, guardando le Vetrate Photo-graffie, non vediamo persone o paesaggi fuori di noi ma abbiamo un insight nella graffiante realtà delle immagini della mente e non possiamo fare a meno di ricordare i versi con cui Agnetti presentava la sua ultima personale a Milano alla Galleria Bruna Soletti, qualche mese prima della sua morte:
Io gatto gufo e pipistrello
graffio il nero siderale
uscito con la luce
e quando sono cane
lambisco le tenere
foglie dei pergolati
Il 1° Settembre 1981 Vincenzo Agnetti muore improvvisamente a Milano, mentre cammina per strada. Un’emorragia cerebrale, uno strappo fisico e mentale che interrompe un percorso. Uno strappo che pare esemplificare il suo percorso artistico e rammenta il suo lavoro: L’artista coglie solo frutti acerbi (1975).
Quella stessa mattina molto presto, prima che io andassi a lavorare, come a volte succedeva data la contiguità di abitazione, mi aveva riparlato del Lucernario, la grande opera a cui stava lavorando che aveva progettato a New York ed è rimasta incompiuta. Ora, di quest’opera, rimangono solo frammenti: alcune immagini di come l’aveva lasciata nel suo studio di via Machiavelli, la fotografia ritagliata del Suonatore di fiori e un prezioso bozzetto con in calce una poesia scritta di suo pugno:
Di notte la Luna illumina
un Sole oscuro.
E volano Aureole
ad accendere il giorno
Prima della breve sera
torneremo alle armi
Saremo in Terra in Sole in Aria.
Poi col suonatore di fiori. Forse.
N.Y. 6/1981