Lo studio è situato all’interno di un edificio a Milano in via Machiavelli al 30. Il portone di accesso all’edificio principale che fronteggia la strada è quello impresso sulla copertina del libro di poesie Machiavelli 30, a ricordarci l’importanza ricoperta dai luoghi. E’ un piccolo capannone in fondo a un vialetto con un olivo, un alloro e alcune piante d’ombra. Da un lato c’è un muro di cinta dall’altro un muretto con una barriera d’edera che lo separa dal giardino su cui d’estate Agnetti apriva la grande porta centrale dello studio.
All’interno lo spazio è unico ma diviso verticalmente da due grandi soppalchi in ferro che lasciano intravedere l’insieme. Alle pareti alcune opere rammentano il percorso artistico di Vincenzo Agnetti. Al piano terra troviamo Spazio Perduto Spazio Ricostruito, Mass Media, due Paesaggi, alcune foto dello studio e una teca contenente il Libro Dimenticato a Memoria e i suoi Quaderni argentini. Sopra, i manifesti di alcune sue mostre e un grande lavoro dell’Amleto politico ci introducono nel livello sovrastante interamente dedicato alla Macchina Drogata e alla sua produzione.
Spazio Perduto Spazio Ricostruito, l’opera che domina la parete principale, e che ci suggerisce il senso della riapertura dello studio, è anche il titolo di una mostra del 1973 che riflette sul rapporto tra spazio, tempo e cultura. Nella lettera di presentazione Vincenzo scriveva alla gallerista Francoise Lambert: <<La mostra che sto preparando vuole dimostrare come il desiderio di sapere e assoggettare ci ha fatto perdere il contatto con lo spazio: ci ha insomma tolto il privilegio di essere abitanti e parte dello spazio>>.
Con la riapertura dello studio quindi l’Archivio vuole ritrovare lo spazio primitivo in cui la cultura ha sedimentato “a memoria” il lavoro e l’opera di Vincenzo e vuole continuarne l’operazione culturale.
Vincenzo Agnetti è una figura di primo piano nel panorama dell’arte concettuale. La sua intensa attività artistica, concentrata in quindici anni dal 1966 al 1981, trae linfa da uno straordinario lavoro, iniziato ancor giovanissimo, di ricerca e di sperimentazione nel campo della poesia, della pittura e della tecnologia. Ha viaggiato molto accumulando scritti, progetti, schemi, idee, costruendo e sedimentando nei suoi Quaderni argentini quello che esprimerà nel suo lavoro, in modo da “iniziare dalla fine”, come egli stesso scriverà. Il fermento degli anni 70 è il contesto ideale per sviluppare il suo discorso: le sue opere si propongono come strumenti critici che si incuneano nella ricerca dell’intervallo, dell’interspazio, del margine. Si tratta di critica operante che ingloba aspetti della politica, del linguaggio, dell’arte. Basti ricordare “la macchina drogata”, una calcolatrice Divisumma Olivetti in cui i numeri sono sostituti con lettere, che in breve inizia a produrre opere, alcune di altissimo impatto visivo ed evocativo. Su Ciclostile1 Agnetti scrive al proposito “questa macchina nata demistificante (abbassamento del proprio impiego) ha ora iniziato una produzione artistica…è insomma tornata utensile addomesticato (rendimento e reversibilità)”. La ricerca del negativo, propria di quegli anni, trova in Agnetti uno dei suoi massimi esponenti e si svilupperà lungo tutto il suo percorso con modalità espressive e tecniche di volta in volta diverse, all’incrocio tra tecnologia, arte e poesia. Procedimenti interrotti ridotti azzerati, traduzioni da un codice all’altro, vuoti e cancellazioni come elementi del dimenticare, come nel Libro Dimenticato a Memoria che non a caso troviamo, per un incastro paradossale, nella stessa teca accanto ai Quaderni argentini. Agnetti è un maestro della poetica dell’azzeramento che invita l’operazione concettuale ad entrare paradossalmente in contatto con un mondo visionario e profondamente ancorato alle emozioni. Il suo autoritratto “Quando mi vidi non c’ero” ne è un esempio lampante. Forse per questo le sue opere oscillano tra il rigore mentale esasperato degli assiomi e le ridondanze letterarie come nei Ritratti e nei Paesaggi, contrapponendo quindi la freddezza della bachelite al calore del feltro.
Il medium espressivo per Agnetti è organico al discorso che vuole rappresentare, per questo la sua ricerca sui differenti modi di creare arte, sulle tecniche e sui materiali è così importante: la parola, l’immagine fotografica, la tecnologia manipolata, la carta fotografica esposta e graffiata, la scultura accompagnata alla fotografia e ancora alle registrazioni e ai video, le installazioni, le performance sono sempre utilizzati come supporto del progetto artistico. Agnetti è un artista concettuale che non espone concetti ma li costruisce e li rende visibili e percepibili all’occhio dell’osservatore. E’ l’osservatore che può decodificare il senso concettuale delle sue opere. E’ l’osservatore che entrando nel suo spazio è invitato attraverso un’operazione concettuale rigorosa a entrare i contatto con un mondo visionario paradossalmente ancorato alle emozioni.
L’occasione della riapertura del suo studio è l’appuntamento milanese della Fiera d’arte e l’inaugurazione avverrà proprio all’interno dell’agenda del MIArt, questo a significare la volontà dell’Archivio di mettere a disposizione lo spazio del grande artista milanese. L’intenzione è che lo studio di Vincenzo Agnetti non sia solo un luogo della memoria ma anche uno spazio di idee, di proposte, d’iniziative e di ricerche che desideriamo si sviluppino sulla sua stessa lunghezza d’onda di pensiero e d’illuminanti intuizioni.
Germana Agnetti e Guido Barbato